
Live Report: Wardruna & Dayazell à L’Olympia
Wardruna
Ora, il piatto forte.
Io non ho mai assistito a nulla di simile. Chiariamoci, non saprei dire se è stato il miglior concerto della vita (credo di no), ma è stato, senza alcun dubbio, al più unico.
Il black metal, il punk, ma persino un cantautore sul palco, nonostante la distanza oceanica tra loro, fanno scaturire sensazioni diverse, ma tutte simili tra loro: per come la vedo io, fanno scatenare, divertire, muovere la gente. Ti liberano dal momento presente, per farti concentrare su di loro, mentre l’adrenalina ti spara nel cervello. È un casino, volano birre, spinelli e le coppiette si stringono affettuosamente. Beh, i Wardruna NON sono così.
Oserei dire che il loro non è nemmeno stato un concerto.
Per me, è stato un rituale, e non ho usato questa parola religiosa a caso. Sembrava di assistere ad una funzione sacra, i cui sacerdoti erano le persone sul palco.
Einar Selvik, mente, frontman e “capo” del gruppo, si è trasformato in una sorta di sciamano e ha deciso di condividere con noi, umili mortali “normali”, un momento mistico. Come tutte le figure “al limite” della tradizione religiosa “pagana” (odio questo termine), egli ci ha donato un po’ di emozioni borderline.
Ma questo, nel concreto, cosa significa? Che il pubblico era silenzioso, non c’erano schiamazzi, nessuno ha urlato, riso o si è esaltato. Erano tutti in contemplazione assoluta, all’interno della propria mente, mentre, sul palco, la gente suonava sotto un parco luci INCREDIBILE (parlando di luci, è stato il miglior concerto della vita, senza dubbio): nulla era messo a caso, sfondi e colori servivano a dare il giusto risalto al componente che stava “trainando” la musica in quel momento.
Delle volte, l’occhio di bue isolava Selvik, rendendolo un punto bianco in un mare di tenebra, altre volte il filtro rosso rendeva tutto simile ad un film di Dario Argento, ma senza ammazzamenti. Quanto a me, beh, ho vissuto filmini.
Qualche canzone mi ha stimolato l’immaginazione, costringendomi a chiudere gli occhi e alzare la testa, come fossi sotto un cielo stellato, davanti ad un falò. Gli occhi mi erano d’intralcio in quel momento di concentrazione, per cui li ho rivolti all’interno di me, notando, di volta in volta, cose diverse: alcune canzoni mi trasportavano su enormi navi-drago, lanciate nell’oceano; poco dopo potevo sbattere la mia ascia sullo scudo, mentre la nebbia si diradava sulla collina; un’altra volta ancora stavo rendendo onore ad un morto illustre, al suo funerale.
Tutti momenti scaturiti da brani particolari (non tutti, ovviamente, ugualmente impattanti), anche se, come Einar stesso ha detto (a fine concerto), potevo sentirmi come toccato da dentro, come se quel “nuovo fatto con roba vecchia” avesse un potere ancestrale. Ho vaneggiato per ore credendo di aver visto vite passate e quasi sicuramente sono tutte cretinate, eppure… Beh, io mi diverto così.
E musicalmente? Beh, si tratta di una sorta di folk scandinavo/norvegese, suonato con strumenti tipici di cui non conosco i nomi e che, secondo le parole di Selvik, sono stati difficili da recuperare, farsi fabbricare e, talvolta, costruire.
Tuttavia, per creare l’”ambient”, c’erano innesti di elettronica minimale, fatta di note lunghe (il primo segno per capire se qualcosa è d’atmosfera o no) suonate con effetti ricercati.
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