Il racconto di oggi per la nostra raccolta Favole da Compagnia ha come titolo Lo Specchio e ci è stato inviato da Claudia Mauro che molti conosco anche per il progetto Trecce Fatate (seguite il suo canale).

Lo Specchio

C’era una volta uno specchio.
Non era uno specchio enorme, di quei bellissimi specchi che si appendono nei salotti dei ricchi, ornati di una sottile cornice in argento finemente cesellata.
Era uno specchio piccolo e semplice, ovale con una banale cornice di passamaneria che nascondeva una piccola scheggiatura sul bordo. Nonostante le sue dimensioni minute e il suo aspetto ordinario, si sentiva molto orgoglioso di se stesso, dopotutto era uno specchio antico, sopravvissuto a un secolo, due guerre e ben tre generazioni.

Per lungo tempo aveva dimorato in cima alla toeletta della bisnonna, rimirandola mentre tutte le sere coccolava i lunghi capelli neri con cento colpi di spazzola prima di intrecciarli per la notte.
Poi era stato trasferito sulla cappa del caminetto in sala da pranzo dove aveva guardato il susseguirsi dei rituali pranzi festivi, quando tutti si vestivano a festa e veniva tirato fuori il servizio buono.
Dopo la seconda guerra era tornato in camera da letto, riposto su un piedistallo accanto a una statuetta della Madonnina. Aveva assistito alle chiacchiere mattutine della coppia di sposi, alle nascite di tutti i bambini che furono partoriti in casa.

Aveva continuato a girare di stanza in stanza, catturando nel cerchio del proprio riflesso attimi che fuggivano nel tempo. Gioie, dolori, rimpianti, conquiste. Grandi piccole emozioni di una famiglia in continua evoluzione.

Finché delle mani sconosciute l’avevano preso e tirato giù dalla parete per riporlo al buio in un baule.
Da quel momento, i suoi occhi avevano contemplato soltanto l’oscurità, perdendosi attraverso un tempo che si perdeva nel nulla profondo.
Niente più attimi.
Niente più emozioni.

Lo specchio si era ritrovato a ripetere all’infinito dentro il proprio cuore tutto quello che aveva visto nel suo lungo secolo di vita. Ripeteva giorni, parole, volti, pur di non dimenticare, ma poco a poco la memoria era svanita.

Il buio aveva mangiato tutto, e lui si era ritrovato ad ansimare nell’oblio, incapace di ricordare se stesso e tutti i volti che si erano specchiati nel suo ovale.
Desiderava avere la capacità di piangere la propria terribile condizione, sfogare quel dolore profondo che lo animava di fronte alla sensazione sgradevole dell’amnesia profonda.
Ma gli specchi non piangono.
Non possono versare lacrime anche se soffrono, esattamente come il loro cuore non palpita anche se provano emozioni.

Non aveva alcun potere per venire fuori da quella tomba buia, poteva solo restare in attesa che qualcuno si ricordasse di lui, e sperare fermamente che ritornando alla luce i ricordi poco a poco tornassero.
Ma il tempo passava e la cassa continuava a restare chiusa.
Lo specchio perse ogni speranza di tornare fuori, finendo col perdere anche gli ultimi brandelli della propria consapevolezza. Iniziò a morire, la sua anima si disgregava riducendosi in polvere.
«Fammi uscire…» sospirava ogni tanto, sempre più raramente, sempre più disperato.

Finché un giorno, di colpo, la cassa si aprì.

Mani rudi lo afferrarono, rigirandolo senza riguardo.
Lo specchio gemette di dolore per la luce che di colpo lo trafiggeva, ma nessuno poteva sentirlo.

«La vecchia è morta ieri, giusto?»
«Sì.»
«Sei sicura che abbia lasciato queste cose a te?»
«Certo, signore. Io badante, no ladra.»
Ma il tono della sconosciuta puzzava di menzogna fino alla fine dell’isolato.
Sentì gli sconosciuti contrattare il prezzo dello scambio.
Cercò di ricordare.
Chi era la vecchia di cui parlavano?
Il lampo di una donna dai lunghi capelli bianchi che ancora spazzolava i capelli cento volte prima di andare a dormire lo illuminò per un attimo.

Ma no. Quella vecchia era morta molti e molti anni fa.
Dentro il proprio riflesso custodiva ancora il profilo esile della sa salma stesa sul letto. Vestita con un abito di mussola bianca con le mani incrociate sul petto strette intorno a un mazzolino di violette.
Allora forse era sua figlia?

Sua figlia che aveva urlato quando aveva scoperto il primo capello bianco e suo marito aveva dovuto tenerla abbracciata stretta mentre piangeva perché stava diventando vecchia.
No… non ricordava il suo funerale, ma ricordava tutti i figli raccolti a piangere, e poi tutte le volte che a tavola la sua memoria era tornata a farli sorridere con gli occhi lucidi, mentre raccontavano questo o quell’aneddoto.

Allora chi?

Chi era rimasto, nella vecchia casa, la sola cosa più vecchia di lui?
Nel suo cuore si fece lentamente spazio un ricordo strano.
Il viso rotondo di una bambina dagli insoliti capelli rosso tiziano. Quel suo modo buffo di fare le boccacce guardandosi allo specchio. Quanto aveva riso davanti al suo visetto che si trasformava nel tentativo vano di rendersi mostruoso.

Si ritrovò a sorridere, lasciandosi cullare da una lunga catena di ricordi.
Il suo primo giorno di scuola, con indosso il severo grembiule nero su cui i folti riccioli rossi spiccavano come un raggio di sole.
La prima comunione, quel suo modo furioso di pestare i piedi urlando: «La comunione è una cosa stupida!» che aveva fatto inorridire tutte le donne della famiglia.
Le sue lacrime per il primo amore incorrisposto.

E poi quel sorriso fulgido, quello che sembrava scorrere nel sangue di tutte le donne della casa, quando indossavano il vestito bianco di famiglia per andare spose all’uomo che le avrebbe amate e onorate per il resto della loro vita. In salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, finché morte non ci separi.
E la morte li aveva separati presto.

Lo specchio non sapeva cosa fosse accaduto, ma ricordava ogni singola lacrima che le aveva visto piangere. Un mare infinito di lacrime.
Lei era rimasta sola, con quattro bambini da accudire e un dolore troppo grande per essere spurgato con le lacrime.

La coglievano gli incubi. Urlava e si dibatteva nel sonno, per poi svegliarsi e passare il resto della notte a torcersi in un pianto silenzioso pieno di rabbia.
I giorni si consumavano nei lavori massacranti che era costretta a fare per sostentare la famiglia.
I bambini crebbero, uno dopo l’altro lasciarono la casa.

Disgregando se stessa, la donna dai capelli rosso tiziano era riuscita a procurarsi di che pagare gli studi a tutti i suoi figli. Aveva offerto loro un titolo universitario e un futuro assicurato. Aveva pianto di nascosto, sotto gli occhi segreti dello specchio, ognuno dei figli che era andato a vivere lontano.

Lentamente, la donna dai capelli rosso tiziano era diventata una vecchia signora. I suoi capelli avevano iniziato a sbiadirsi, e ormai restava solo qualche ciocca paglierina tra ciuffi color della neve.
Gli acciacchi iniziavano a fiaccare il suo corpo, e spesso parlava all’aria.
Così i figli si erano riuniti. Avevano discusso a lungo su chi di loro dovesse accollarsi il dovere di occuparsi della vecchia madre.

I maschi avevano scaricato la responsabilità sulla femmina.
La femmina si era difesa sostenendo che le toccasse già occuparsi della suocera non vedente e dei bambini, che lo facesse qualcun altro.
La discussione era sfociata in diverbio e il diverbio in lite.
Alla fine, per mettere fine a quello sbraitare senza fine, il maggiore aveva sentenziato che avrebbero assunto una badante.

La badante, una sconosciuta dagli occhi cerulei, si era presentata il giorno dopo di buon mattino. Pratica e sbrigativa, aveva immediatamente preso possesso della casa, governandola con la precisione di un orologio svizzero e un’autodisciplina degna di un generale in guerra.

Era gentile con la vecchia signora, si prendeva la libertà di tenere per sé il resto della spesa anche quando ammontava a ben 20 euro, ma non faceva mai mancare niente alla sua padrona di casa.
A pranzo e a cena le serviva da mangiare come fosse una principessa, spesso le preparava i suoi pranzi preferiti.

Litigava con i figli della signora perché non le faceva seguire la dieta prescritta dal medico.
«Signora vecchia, signora almeno muore felice! Perché deve desiderare cose buone anche ora?» tuonava facendo vibrare le pareti con la sua voce dai toni scuri e terrosi fino alla camera da letto.
La lite terminava sempre con lei che prometteva di seguire le direttive del medico e i figli che annuivano soddisfatti. Ma tutti sapevano che alla fine si sarebbe tornati al punto di partenza.

Una mattina la badante era tornata dalla spesa tutta fischiettante. Aveva tirato fuori da una scatola un bellissimo specchio con la cornice tutta intrecciata e l’aveva mostrato alla signora.
«Così leviamo vecchio specchio scheggiato. Merletto brutto, ingiallito. Vecchio vecchio!»
La signora aveva scosso il capo debolmente. «È della mia bisnonna», aveva dissentito, ma la badante non le aveva dato ascolto.

Ormai la signora faticava a ricordare le cose, a telefono confondeva le voci dei figli, oppure finiva col raccontare più volte lo stesso episodio. Si sarebbe dimenticata presto anche del vecchio specchio.
Così lo specchio era stato rimosso dalla parete e riposto in un baule.
Ricordare tutto fu come essere trafitto a morte.
Un dolore lancinante lo colpì dritto al cuore.

Lo specchio si sentì spezzare. Non aveva mai provato una sofferenza così insopportabile prima di allora.
Urlò selvaggiamente, con tutto il proprio respiro. Sentì il vetro di cui era composto stridere.
Un boato riempì i suoi occhi, i suoi orecchi, l’intero suo riflesso.
Poi divenne tutto buio.
Rumore di passi.

«Cosa è successo?» chiese una voce di donna sconosciuta.
«Non lo so…»
«Hai rotto lo specchio! Dio del Cielo, sai che significa? Sono sette anni di disgrazia!»
«Non l’ho rotto io! Mi è praticamente scoppiato in mano!»
«Perché sei un bufalo senza riguardo! Guarda qui che guaio..»
Mani gentili tintinnarono su quello che restava della sua consapevolezza.
Si era rotto… il mondo. Il dolore che lo specchio aveva sentito aveva mandato il mondo in frantumi.
La bambina dai capelli rosso tiziano era morta.

Non sapeva perché, ma lei l’aveva amata più di tutte le altre persone della famiglia. Sapere che non c’era più, che sarebbe diventata polvere nella terra, lo aveva distrutto.
Il mondo fu raccolto in un mucchietto misero. Frammenti che guardavano centinaia di direzioni, cristalli scheggiati sconnessi tra loro.

Fu gettato in una busta e lasciato da qualche parte dove si sentiva il frastuono della strada.

Poi la busta fu strappata.
Vide il viso frantumato di una bambina dai capelli frantumati rosso tiziano.

«Uh, uno specchio!» esclamò la sua voce frantumata.
«Che te ne fai di uno specchio rotto? Cretina!» la derise qualcuno. Frantumato.
«Lo rimetto insieme!»

Piccole agili mani lo condussero lontano.
Piccole agili mani lo rovesciarono delicatamente su una superficie piana.
Piccole agili mani lo ricomposero come un puzzle.
E il mondo frantumato tornò ad essere tutto un pezzo.
Lunghe folgori di luce lo attraversavano, rendendolo nuovo e incantevole.
La bambina dai capelli rosso tiziano si guardò nello specchio. Lo specchio la guardò di rimando.
Anche lei era tornata tutta intera.
«Anita, sei proprio brava!» si disse la piccola.
E fece una boccaccia buffa.

Un racconto di:
Claudia Mauro
Grazie di cuore di aver partecipato all'iniziativa.

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