Il racconto vincitore dell’edizione di Novembre de Sull’Orlo del Foglio è La Neve Sui Rami inviato da Fabio Carrella.

Ancora una volta ci congratuliamo con il vincitore del concorso e speriamo che questi racconti vi siano piaciuti. Vi ricordiamo, inoltre, che siete ancora in tempo per prendere parte all’edizione di Dicembre quindi non mancate di inviare i vostri racconti.

La Neve sui Rami

Era passato un mese da quando un finto autunno aveva lasciato posto all’inverno, quello vero, almeno tra le montagne del New Hampshire.

David, come ogni mattina, si svegliò all’alba senza un motivo preciso. Riscaldò del caffè nero fatto il giorno prima, e lo mando giù in due sorsi senza nemmeno assaporarlo. Altrettanto meccanicamente, prese un fiammifero da una scatola su cui c’era scritto “Hotel La Belle”, sfilò una sigaretta dal pacchetto e la accese, iniziando ad emanare fumo dalle narici. Indossò l’impermeabile sul pigiama blu di flanella, infilò gli stivali di gomma e afferrò la pala poggiata accanto alla porta. Uscì di casa camminando a tentoni tra la neve che gli arrivava poco sotto le ginocchia. Alzò gli occhi verso il cielo, guardando con sdegno quel sole debole, incapace di sciogliere la neve che la notte aveva sparso in giro.

Iniziò a spalare, cominciando dalla strada principale e procedendo a ritroso verso l’ingresso di casa. A metà percorso si fermò a riprendere fiato, inspirando ancora più profondamente il fumo del tabacco. Lo sguardo gli si posò sul vecchio acero, piantato decenni addietro a lato della casa. Era ricoperto di neve, immobile e dimenticato come quegli scivoli di plastica lasciati a scolorire nei giardini delle abitazioni di periferia.

David lo fissò per un po’, prima di riprendere da dove aveva lasciato. Quando ebbe finito, chiuse la porta, si spogliò del tutto e, ancora sudato, si infilò sotto la doccia. Bestemmiò quando un getto d’acqua fredda gli colpì la schiena. Spostò la tendina e, allungando il braccio, diede un paio di colpi allo scaldabagno elettrico.

“Porca puttana, si è rotto di nuovo” mormorò.

Restò comunque sotto l’acqua gelida, cercando di lavarsi il più in fretta possibile. Poi si avvolse un asciugamano azzurro intorno alla vita, si aggiustò i capelli allo specchio col pettine e, nonostante fosse già corta, si rasò comunque la barba con una vecchia lametta usa e getta. Andò in cucina, che in quella piccola casa di legno fungeva anche da salotto, accese la TV su un canale qualsiasi e si sedette ad un tavolo da lavoro dove, da qualche settimana, aveva iniziato a levigare un ceppo di quercia lungo poco meno di un metro. Dopo due notiziari sportivi, quattro sigarette e mezzo centimetro di segatura sul pavimento, si interruppe di colpo. Qualcuno aveva bussato alla porta e, sebbene avesse già un’idea di chi potesse essere, per un attimo qualcosa sembrò muoversi dentro di lui.

*

Spense la TV e si avvicinò all’ingresso con cautela. Guardò attraverso lo spioncino e sbuffò, aprì la porta e ritornò al tavolo senza nemmeno salutare l’ospite.

“Buon compleanno sergente!” disse Steve, poggiando la tracolla da cui spuntavano un pacco e qualche bolletta ancora da consegnare.

David lo guardò con finto stupore.

“Non mi dica che se n’era scordato?” incalzò Steve, chiudendo la porta dietro di sé.

“E invece è proprio quello che ti dico” replicò David, continuando a levigare il ceppo di quercia.

“Certo, come no, e allora perché mai ha spalato la neve davanti casa già a quest’ora? È l’unico in paese, tra l’altro”

“Non vedo cosa c’entri col mio compleanno”

“È perché aspetta qualcuno, non è vero?”

“No. È perché lo faccio tutte le mattine” ribatté David mentre si accendeva un’altra sigaretta.

“Se è questo ciò che le piace raccontarsi…”

David lasciò cadere la conversazione e guardò Steve per la prima volta da quando era entrato in casa. Era in piedi e teneva in mano una vecchia foto incorniciata dov’erano ritratti un giovane in divisa poco più che ventenne ed una ragazza con i capelli neri e un vestito avorio, seduta su una sedia. Tra le braccia stringeva un neonato avvolto in una morbida coperta dai colori chiari. Il giovane e la ragazza non ridevano, ma i loro sguardi tradivano l’impazienza di vivere qualcosa che fino a quel momento avevano soltanto sognato.

“Rimettila al suo posto” disse bruscamente David.

Nonostante avesse solo qualche anno in meno, Steve eseguì la richiesta senza battere ciglio, come il più semplice dei soldati.

“Le ha telefonato almeno?”

David restò in silenzio, piallando il legno con forza sempre maggiore.

“Perché non lo chiama lei?” domandò Steve.

David posò lo strumento e ciccò in un posacenere di vetro decorato a mano. Attese un paio di secondi, come se cercasse le parole per esprimersi nella maniera più chiara e al contempo più cortese possibile.

“Non abbiamo molte cose da dirci” fu tutto quello che ne uscì.

Steve fece una smorfia di dissenso.

“O forse ne avete fin troppe”

David si alzò, dirigendosi verso la cucina. Il frigo aveva un intero scaffale ricoperto di birre in lattina di marche diverse. Ne prese una su cui c’era la testa di un orso stampata su uno sfondo argentato.

“Cosa sta facendo di bello qui?” chiese Steve indicando il ceppo di quercia tagliato a metà.

David ci pensò su, forse per la prima volta.

“Una mensola” rispose.

Steve ne sfiorò la corteccia ruvida con la punta del dito.

“Potreste scrivergli, dicono che aiuti ad ordinare i pensieri”

“Ah si? E chi lo dice?” rispose David mandando giù un altro sorso.

“Lo dico io, tanto per cominciare” disse Steve con tono poco convinto.

David si avvicinò a Steve, in piedi accanto al tavolo da lavoro, fissandolo negli occhi con severità. Lo superò, aprì la porta d’ingresso e rimase lì in attesa.

Steve sollevò la tracolla dal pavimento e riprese a parlare, stavolta senza guardare l’altro negli occhi.

“Ho capito, oggi non è in vena di chiacchiere. Allora vado, che ho altra posta da consegnare. Penso che la signora McMahon abbia ordinato l’ennesima diavoleria per la sua cucina, a giudicare dal peso di questo pacco” disse abbozzando un sorriso.

David terminò la birra con un ultimo lungo sorso, lanciando la lattina sul divano poco distante.

“Ah, un’ultima cosa” disse Steve fermandosi sull’uscio.

“Oggi parto per Boston, starò lì con mia figlia per qualche giorno. Ha da poco tolto i punti del cesareo, e mia moglie vuole darle una mano. Io farò soltanto da autista, a quanto pare, visto che vorrebbe portarla in giro a fare shopping. D’altronde non manca molto a Natale”

“Fa’ gli auguri ad Alison da parte mia”

Sentendo quelle parole, Steve risollevò lo sguardo. Gli occhi di David erano inespressivi, ma per un attimo la voce aveva fatto trapelare qualcosa, un misto di gelosia e nostalgia.

“Certo. E cerchi di farsi un regalo, sergente. Almeno oggi”

Senza attendere una risposta, che comunque non ci sarebbe stata, Steve infilò il cappello di lana, percorse il viale che lo separava dalla strada principale e poi voltò a sinistra, scomparendo dietro un cumulo di neve accatastata.

*

David rientrò in casa e chiuse la porta. Si avvicinò alla foto che Steve aveva staccato dal muro e la prese tra le mani. Ruotò dei gancetti sul retro della cornice, la rimosse con cura e la appoggiò momentaneamente sul pavimento. Dietro la foto ve n’era un’altra, nascosta. Ritraeva un ragazzo alto, magro, con i capelli chiari e occhi grandi e dolci. In testa aveva un tocco nero da cui pendeva una nappa dorata, indossava una tunica cerimoniale e in mano stringeva una pergamena di laurea. Dietro di lui si erigeva un edificio di mattoni rossi e, poco davanti, un muretto di pietre bianche recava la scritta “University of New Hampshire”. Alla destra del ragazzo vi era David che gli stringeva con forza la spalla, sfoggiando un sorriso deciso. Dall’altro lato vi era una donna con un maglione rosso, seduta su una sedia a rotelle. Il tubicino trasparente che le attraversava il viso tradiva la presenza della bombola d’ossigeno nascosta dietro lo schienale della sedia. Era aggrappata con entrambe le braccia alla vita del figlio e sembrava che nulla avrebbe mai potuto staccarla da lì. Anche lei sorrideva e aveva gli occhi semichiusi, probabilmente per la fatica che provava o, forse, per assaporare meglio quel momento. Sul retro della foto vi era scritto con inchiostro nero “Laurea di Neil – 2003”, mentre in basso a sinistra vi era un numero di telefono trascritto a matita e ricalcato con una penna blu.

*

Un brivido di freddo percorse la schiena di David che, con un po’ di fatica, si chinò a raccogliere la cornice e rimise a posto la vecchia foto di famiglia, tenendosi per sé quella che ritraeva la laurea del figlio. Approfittando dell’assenza di Steve, l’unico individuo che gli facesse visita di tanto in tanto, la poggiò con cura su una delle mensole sovrastanti il tavolo da lavoro. Un altro brivido lungo le braccia lo convinse a buttare un po’ di legna secca nel camino e ad accendere il fuoco. Riprese a levigare il ceppo, fumando una sigaretta dopo l’altra, finché lo stomaco cominciò a brontolargli. Non aveva un orologio, o meglio, ne aveva uno di plastica proprio sopra il camino, ma era fermo da anni, come tante altre cose in quella casa. Ignorando che ore fossero, iniziò a bollire un po’ d’acqua sul fornello a gas, mettendoci dentro del brodo in polvere. Quando il colore sembrò soddisfare le sue basse aspettative, afferrò una presina di stoffa, la adagiò sul tavolino in cucina e ci poggiò sopra il pentolino ancora bollente. Nell’attesa che il brodo si raffreddasse, accese la TV. Una bionda di mezz’età raccontava gli effetti miracolosi di un cuscino ortopedico grazie al quale il marito riusciva tranquillamente a guidare, giocare a tennis e persino ad essere più performante sotto le lenzuola. Non a caso ne aveva ordinati due al prezzo di uno. David prese a bere il brodo con un cucchiaio in una mano, mentre nell’altra stringeva una fetta di pane bianco che addentava di tanto in tanto. Una volta finito, lavò il pentolino usando un detersivo scadente, lo sciacquò e lo sistemò nella credenza a gocciolare.

Si sedette nuovamente al tavolo da lavoro ma, dopo qualche minuto, il tepore causato dal brodo caldo cominciò a svanire. Si sentiva le mani e i piedi gelati e la schiena indolenzita. Tentò di continuare a piallare il ceppo coprendosi le spalle con una vecchia coperta marrone, ma la stanchezza si fece insopportabile anche per un uomo di buona costituzione come lui. Si alzò, reggendosi a malapena con le mani sul bordo del tavolo, e si sedette sulla poltrona di pelle di fronte al camino. Le voci provenienti dalla TV cominciarono a risuonargli lontane come un’eco tra le montagne, le palpebre si fecero pesanti e così si assopì, con la testa piegata sulla spalla.

*

Quando riaprì gli occhi, il fuoco si era oramai spento e la luce del sole era scomparsa quasi del tutto. Si sentiva freddo e irrigidito come un blocco di marmo, e quando provò ad alzare la testa dallo schienale, tutto cominciò a girargli intorno. Si sporse rapidamente sul fianco, vomitando il brodo e tutto il resto su un tappeto dal colore simile. Si toccò la fronte col palmo della mano ed era bollente, poi spense la TV per il mal di testa che gli causava. Una sensazione di paura cominciò ad intrufolarsi tra le pieghe del suo corpo e la cosa lo colse di sorpresa, facendolo rabbrividire ulteriormente. Si alzò con fatica, arrivando quasi carponi in prossimità di un mobiletto di legno chiaro posto a lato della TV. Sopra di esso vi era un vecchio telefono nero a rotella, ricoperto d’un velo di polvere ma dai numeri ancora perfettamente leggibili. Compose il numero di Steve, forse l’unico che ricordava a memoria, ma dopo numerosi squilli a vuoto capì che era già partito per Boston. Rimise la cornetta sui ganci metallici e si rassettò la coperta marrone con la mano sinistra per coprirsi meglio le spalle. Poi si avvicinò al tavolo da lavoro, allungò il braccio e afferrò la foto del figlio. La fissò a lungo, cercando di ripescare ricordi inabissati sul fondo di un oceano, poi la voltò, guardando con terrore quelle nove cifre ricalcate in blu. Si riaccostò al telefono e girò lentamente la rotella sperando che, fra un numero e l’altro, un asteroide potesse crollargli sul tetto. Ma, sfortunatamente per lui, ciò non accadde.

“Pronto?”

La voce di Neil era proprio come la ricordava nei suoi sogni, morbida e affabile.

“Pronto? Paul, sei tu?”

David riagganciò con forza la cornetta, scheggiandola in vari punti, mentre i brividi iniziarono a scuotergli violentemente il corpo. Prese a pugni prima il tavolino, poi la sua stessa testa, finché qualcosa in lui, simile a una diga, si crepò sotto i colpi, lasciando fuoriuscire anni di lacrime soppresse. Quando non ci fu più nulla da piangere, si trascinò fino alla camera da letto e, senza nemmeno accorgersi di avere ancora indosso il pigiama di flanella, si infilò sotto le coperte, addormentandosi quasi istantaneamente.

*

Si risvegliò col sole già parzialmente coperto dalle montagne.

“Ma quanto cazzo ho dormito?” si chiese.

Si alzò dal letto e andò in bagno, mettendoci un po’ per riconoscersi allo specchio. Aveva la bocca impastata, un alito pessimo e il colorito giallognolo, ma almeno riusciva a reggersi in piedi da solo. Tirò fuori la lingua come fosse dal dottore, guardandosela riflessa, poi si interrogò sul senso di quel gesto, visto che non aveva minimamente idea di come sarebbe dovuta apparire una lingua sana. All’improvviso una scena gli comparì per un istante davanti agli occhi, qualcosa che forse aveva sognato durante la notte. Si sforzò immensamente per riportarla a galla ma, visto che l’ultimo sogno fatto risaliva all’ultimo Super Bowl vinto dai Buccaneers, la cosa non fu facile. Si ricordò di una stanza poco illuminata e della sensazione di solitudine che sentiva dentro, nonostante ci fossero altre persone intorno a lui. Forse tra queste c’era anche Maggie, seduta su una sedia a parlare con qualcuno, ma non era sicuro si trattasse di lei, i capelli erano troppo lunghi. Si sciacquò la faccia con l’acqua gelida e, ricoprendosi le spalle con la vecchia coperta marrone, andò in cucina a prepararsi del caffè. Fece finta di non vedere la macchia di vomito semi-solido sul tappeto, poi decise di coprirla con della segatura, giusto per renderla più evidente ed evitare di finirci sopra. Mentre l’acqua cominciava a bollire, gli occhi si posarono sulla foto di Neil lasciata accanto al telefono, e si ricordò di ciò che era successo la sera prima. La voce del figlio prese a risuonargli nella testa come un disco rotto, ma non gli diede molto fastidio, era pur sempre meglio del silenzio che solitamente vi regnava.

*

Versò il caffè in una tazza verde smeraldo e, mentre ci soffiava su, si avvicinò alla finestra accanto all’ingresso. Vide l’acero nascosto sotto la neve pesante e per un attimo ne condivise la stanchezza come fossero vecchi amici. Poi accadde qualcosa, un cumulo di neve si staccò da un ramo, lasciandolo scoperto. Era un ramo alquanto doppio che, a differenza degli altri, non saliva verso l’alto, bensì si estendeva quasi parallelo al terreno, tendendo verso la foresta. David fissò quel ramo con aria perplessa, come se quel vecchio amico gli avesse appena confidato un segreto indicibile. Sorseggiò, continuando a scrutare l’acero con attenzione, fino ad immaginarlo nel mezzo di quella stanza che aveva sognato. Stavolta non c’era più gente intorno e non c’era nemmeno Maggie o la donna che le somigliava tanto, ma restava, in compenso, quel senso di solitudine abissale. Poi si voltò, raccolse un quaderno a quadretti che teneva da parte per i conteggi di fine mese, ne strappò una pagina e iniziò a scriverci sopra, poggiandosi sul tavolino in cucina. La penna si muoveva nervosa sul foglio e, dopo quasi mezzora e svariate cancellature, ne riempì soltanto metà facciata. David piegò il foglio in vari punti, poi aprì uno dei cassetti del mobiletto accanto alla TV, tirandone fuori una busta in cui inserì con cura il foglio. Indossò un giubbotto nero in piuma d’oca, si mise gli scarponi e uscì di casa.

*

L’aria gelida gli trafisse i polmoni come tante piccole schegge, e per un istante il corpo reagì mandando nuove scosse lungo la schiena. David avanzò deciso, pur sapendo che nemmeno il più ubriaco dei medici, e ve n’erano un paio in città, gli avrebbe mai consigliato una passeggiata all’aria aperta dopo quello che era successo il giorno precedente. Giunse dopo qualche minuto sulla porta di casa di Steve. La station wagon grigia solitamente parcheggiata di fronte al garage non c’era.

“Meglio così” pensò David.

Si guardò intorno, poi fece scivolare la lettera sotto l’uscio e si diresse verso il mini market all’angolo della strada. Era uno di quei posti magici simili alle scatole che si tengono da piccoli sotto il letto, in cui ci si trova di tutto nonostante lo spazio limitato.

“Buongiorno sergente! Come andiamo?” chiese una donna dai capelli bianchi, ma ricci e soffici come zucchero filato.

“Buongiorno Claire, si tira avanti” rispose David stringendo le spalle come se avesse ancora indosso la coperta marrone.

“Non sembra avere una bella cera, se proprio devo essere onesta” notò Claire.

“Cosa posso fare per lei?” aggiunse poco dopo, intuendo la scarsa voglia che David aveva di conversare in quel momento.

“Mi serve una corda resistente, lunga almeno un paio di metri”

Claire guardò per un attimo David con aria preoccupata, poi si diresse sul retro attraverso una porta minuscola. Riapparì con due corde arrotolate, una era colorata, adatta agli sport estremi, l’altra era bianca, più spessa e ruvida.

“Quella bianca va bene” disse David indicandola.

Claire si avvicinò alla cassa e cominciò a battere le cifre con le dita.

“Fanno cinque dollari e ottantaquattro” disse, porgendogli una busta semitrasparente.

“David, va tutto bene?”

La domanda lo colse di sorpresa, tanto che alcuni spiccioli caddero sul pavimento.

“Certo Claire, va tutto bene” rispose mentre si chinava per raccoglierli.

Uscì dal negozio e si diresse verso casa. Una volta arrivato, aprì la porta d’ingresso e, senza togliersi il giubbino, afferrò il ceppo di quercia tagliato a metà e lo poggiò in verticale sotto il ramo d’acero scoperto. Ci salì sopra tenendosi in equilibrio, aiutandosi con le mani sul tronco, poi prese la corda arrotolata dalla tasca, la slegò e la annodò intorno al ramo. La strattonò più volte verso il basso e, vedendo che il ramo rimaneva saldo senza scricchiolare, sorrise, forse per la prima volta da anni.

*

Natale era passato da poco, e l’inverno era oramai nel pieno delle sue forze. Steve lasciò la station wagon poco lontano dall’entrata del cimitero e si fermò a comprare un mazzo di garofani rossi. Sua moglie Thessa restò in macchina e lo vide avvicinarsi a una delle tombe di pietra bianca accanto alla cappella. Lo osservò con interesse mentre mormorava qualche parola al vento e poggiava il mazzo di fiori sull’erba che spuntava dalla neve. Poi lo vide tornare verso l’auto e ne approfittò per risistemarsi i capelli con lo specchietto retrovisore.

Guidarono fino alla casa di David, parcheggiando dietro una grossa Hyundai nera. Steve stava per bussare alla porta quando questa venne spalancata da una bambina che, gridante di gioia, si diresse verso il giardino innevato. Sorrise quando vide David seduto sulla sua poltrona di pelle usurata dal tempo, mentre offriva una birra a Paul, il marito del figlio. Neil era lì, in piedi accanto al camino, a godersi la compagnia di entrambi.

Tutt’e tre si voltarono, con i visi spensierati, e accolsero Steve e sua moglie, invitandoli a riscaldarsi con l’alcol e la legna.

“È arrivato prima Neil dal Maine che tu dal centro città” disse David mentre prendeva altre sedie per gli ospiti.

“Scusi sergente, ho voluto portare dei fiori a mia madre prima di venire qui” rispose Steve quasi intimorito, ancora in piedi nel mezzo del salotto.

David lo guardò seriamente per un attimo, poi si sciolse in un sorriso fraterno.

“Sto scherzando Steve. E chiamami David, diamine non sono mica tuo zio” disse dandogli una pacca sulla spalla.

“Allora ne approfitto, David, per dirti che mi devi ancora i cinquantacinque centesimi per il francobollo che ci ho rimesso di tasca mia”

“A dire il vero, Steve, ti devo molto di più”

E i suoi occhi guardarono Neil, che ora come mai rassomigliava alla madre, forse per via del maglione rosso che indossava. Poi osservò Paul, che ascoltava attentamente il marito sorseggiando la birra in lattina, e pensò che in fondo quei due erano fatti l’uno per l’altro. Infine guardò verso la finestra, e oltre questa vi era il vecchio acero e, sotto i suoi rami, una bambina. Anche lei si chiamava Maggie, ma per puro caso, e aveva un cappotto bianco su cui risaltavano i capelli scuri e lunghi. In quel momento sembrava contenere in sé tutta la vita di questo mondo senza sentirne il peso, mentre si dondolava sull’altalena che il nonno le aveva costruito, felice come se fosse già primavera.

 
Un racconto di:
Fabio Carrella
Grazie di cuore di aver partecipato all'iniziativa.

Se vi è piaciuto il racconto di Fabio, lasciate un commento così che possa saperlo. Detto questo vi aspettiamo la prossima settimana con la raccolta completa e a breve con i racconti del prossimo mese.

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