Il secondo posto del nostro concorso di scrittura Sull’Orlo del Foglio va a Serena Parisi e il suo racconto Epifanie. Vi ricordiamo che sarà possibile trovare tutti i racconti sullo sfogliabile che verrà pubblicato a fine mese e che potete ancora inviare i racconti per il volumetto di gennaio.

E detto ciò vi lascio al primo racconto.

Epifanie

Quegli autobus somigliavano a delle ambulanze; piccoli, con le fiancate bianche e rosse, davano un senso di disagio. Jonas li guardava traballare nel loro percorso monotono, si annoiava e lo spiffero dalla finestra gli mordeva la faccia.

“Una città senza mare è inconcepibile. Tu come fai?”

“Come faccio che?” Silvia sollevò lo sguardo irritata, Jonas si vergognò di aver cominciato quel discorso, vide i suoi occhi stanchi e ogni parola gli sembrò futile.

“Lo so che preferivi restartene vicino al tuo mare; ma devi per forza farmelo pesare ogni volta?” sbottò Silvia.

“Non volevo fartelo pesare, scusa.”

Silvia non rispose e continuò a preparare la valigia, Jonas si sentiva addosso la sua occhiata risentita nonostante fosse rivolta fissamente in basso, non sapeva che dire per farle passare il malumore, o se stare zitto l’avrebbe accresciuto ancora di più.

Non erano passati manco quattro mesi dacché Jonas si era trasferito in quel piccolo appartamento con Silvia, in un paese a metà fra città e montagna, irragionevolmente distante sia dall’una che dall’altra, che non beneficiava delle comodità della prima né della tranquillità dell’altra. La casa, da un terzo della quale era stato ricavato il loro appartamento, era situata al margine della vallata fra due colline, dove l’aria ristagnava senza brezza d’estate, mentre d’inverno la cappa di umidità creava un microclima tale per cui Jonas era lì con due felpe e sciarpa e teneva accese tre stufette elettriche nella stessa stanza. Non una libreria né un cinema esistevano in paese, nemmeno un’edicola. Per Jonas, che aveva lasciato l’isola dov’era nato per un posto dove il mare non si vedeva nemmeno col cannocchiale, quello era l’inferno in terra, non si capacitava ad adattarsi, e perciò era sempre irrequieto, in simbiosi col mare che si era lasciato alle spalle.

Ora Silvia stava per passare il Natale a casa dei genitori, e Jonas aveva da poco vinto una strenua battaglia in cui aveva resistito all’invito di seguirla e trascorrere tutte le feste comandate in casa dei suoceri. Perciò l’umore di Silvia aveva cominciato a virare sul grigio, e rischiava di farsi man mano più scuro fino al nero tempesta senza un deus ex machina che provvidamente gli risolvesse questo imbroglio.

“Che hai?” chiese all’improvviso Silvia, che evidentemente aveva continuato a osservarlo di sottecchi, e anche abbastanza accuratamente.

“Che ho?”

“Hai le guance rosse e gli occhi lucidi.”

“E quindi?”

Silvia gli si avvicinò, gli mise piano la mano fredda sulla fronte. A Jonas fece l’effetto di un ghiacciolo che gli entrasse nel cervello.

“Scotti.”

“Eppure ho sempre freddo.”

“Hai la febbre.”

Eccolo servito del deus ex machina per evitare la litigata. Forse.

“Non ti posso lasciare solo con la febbre addosso.”

“Ma che dici, che febbre e febbre! Sto bene. E poi è quasi un anno che non vedi i tuoi genitori, non è giusto che tu non parta per me.”

“Misurala.”

“Ma non c’è bisogno, ti dico che sto bene!”

In realtà non è che si sentisse proprio bene; insisteva un po’ perché gli riusciva sempre difficile ammettere di essere malato, un po’ perché la prospettiva di rimanere solo durante le feste non gli dispiaceva; anzi, ormai si era abituato all’idea e aveva cominciato a fargli gola. In verità Jonas non reggeva i rituali delle feste. Lo faceva sentire spaesato fingere un’allegria che non sentiva, incontrare decine di parenti e amici, invocare ripetutamente qualche catastrofe improvvisa che lo liberasse dalla noia mortale di assistere a quei convenevoli, ascoltare i soliti luoghi comuni sulla situazione politica del momento e/o qualche delirio razzista buttato lì da quello che finora era stato il più mite e pacifico dei commensali, che tu pensi minimo minimo gli avranno ucciso tutta la famiglia compreso il gatto se cova tanta bile e invece no, mangia beve e non gli manca niente.

“E va bene.” Silvia, con sua grande sorpresa, gli aveva accordato fiducia. “Allora vuol dire che non è un problema se mi accompagni all’aeroporto?” Jonas sapeva che non era una vera richiesta ma un modo di fargli confessare che in effetti tanto bene non stava, ma era testardo perciò non tornò indietro.

“No che non è un problema.” si sorrisero a vicenda, con l’aria di due pistoleri da film western alla vigilia del duello. Quando Jonas fece per prendere le chiavi della macchina, Silvia gliele tolse di mano e le ripose, avrebbe preso l’autobus per l’aeroporto, naturalmente, ma Jonas doveva prometterle di controllare se aveva la febbre e nel caso mettersi a letto munito di aspirine.

Cosa che ovviamente non fece. Appena l’autobus di Silvia fu sparito dietro la curva e Jonas si preparò a gustarsi un po’ di solitudine, squillò il telefono.

“Pronto, Jonas? Senti, per quell’articolo allora siamo pronti? Me lo fai avere in giornata?”

Cazzo, l’articolo! Aveva detto al caporedattore che l’avrebbe consegnato in una settimana o poco più; ora la settimana era passata e non era neanche a metà della stesura. Non ce l’avrebbe mai fatta a finirlo per oggi.

“Le chiedo scusa, dottor Ranieri, le ricerche mi hanno preso più tempo di quello che avevo previsto.”

“Le ricerche? Che ricerche?”

“Beh, prima di scrivere un articolo di solito mi documento.”

“Senti, tu un cazzo di articolo sullo shopping natalizio devi scrivere, non un saggio scientifico. E non mi propinare il solito pippone sul consumismo perché, mettitelo bene in testa, noi campiamo proprio grazie alle pubblicità.” Ranieri si incazzava quando avvertiva quel tono da professore di Jonas, che annunciava un altro dei suoi inutili tentativi di tirar fuori il giornale dalla palude di servilismo di vario genere in cui giaceva. Però bisognava tenerselo stretto perché, se era vero che di scrittori a trent’euro l’articolo se ne trovavano a bizzeffe, non tutti avevano un ottimo rapporto con la lingua italiana.

“Comunque va bene, fammelo avere per il 27. E buone feste a te e famiglia.”

“Buone feste a lei, dottore.”

Jonas si rassegnò a sedersi davanti al computer. Tirocinante non retribuito sulla carta, lavoratore a tempo pieno quasi non retribuito nella realtà, gli toccavano fra l’altro argomenti che gli davano il voltastomaco. Quanto era stato rivoluzionato lo shopping natalizio dagli acquisti online? Non ce ne può fregare di meno, avrebbe voluto scrivere. Semmai, quante tasse pagano i colossi dell’e-commerce? Quanto sono rispettati i diritti di chi lavora per queste aziende? Quanto ci incastrano tutti nella loro tenaglia creando in noi il bisogno di cose assolutamente superflue? Ma Ranieri gli aveva appena proibito di fare certe sparate. Bisognava anzi nominare quanti più prodotti possibili e trasformare ogni trafiletto in un mini-spot. La luce bianca del computer lo accecava. Fu costretto a mettersi gli occhiali da lettura, a cui non si era ancora abituato; ma cambiò poco, non riusciva a tenere gli occhi sulla pagina word. Cominciò con sforzo a rielaborare gli appunti confusi in frasi altrettanto confuse e sconclusionate. Gli principiò un’emicrania che pulsava come un martello pneumatico. Scostandosi dal computer, sentì venir meno l’equilibrio; arrancò fino al letto e ci si buttò sopra.

Riaprì gli occhi senza capire quanto tempo dopo, stralunato. C’era là, davanti alla porta rimasta aperta, qualcosa che l’aveva svegliato. Non vedeva bene cosa fosse perché gli occhi erano appiccicati dal sonno, la testa era un ammasso di piombo e non poteva sollevarla, e il resto del corpo giaceva come paralizzato. Quindi riuscì a mettere a fuoco e riconobbe una figura familiare. Silvia! Era tornata indietro dall’aeroporto all’ultimo minuto, proprio come succedeva nei telefilm americani. Stava lì impalata a guardarlo e non diceva niente. Qualcosa non gli tornava.

“Silvia, ma che hai?” bisbigliò Jonas sollevando appena la testa dal guanciale. Sempre senza dire una parola, Silvia fece cadere la valigia a terra, corse verso di lui e saltò sul letto. La cosa gli parve strana assai. Ovviamente si guardò bene dall’opporre resistenza. Mentre Silvia si sollevava il maglione, Jonas agguantò i ganci del reggiseno e lo slacciò al primo colpo. E questo gli parve ancora più strano. Poi Silvia si bloccò d’un tratto, accostò la bocca al suo orecchio e cominciò a cantare “I see a red door and I want it painted black, no colours anymore I want them to turn black…” Jonas prese lentamente coscienza di stare sognando mentre il telefono sostituiva Silvia e s’insinuava nel suo cervello a un volume sempre più alto “I see the girls walk by dressed in their summer clothes, I have to turn my head until my darkness goes” finché non si svegliò del tutto. Provò a sollevare la testa dal cuscino ma la nausea lo sopraffece, lo costrinse a restare immobile. Sapeva che all’altro capo del telefono c’era Silvia che voleva chiedergli come stava e fargli sapere che era atterrata, e a ogni strofa della suoneria ne percepì dapprima l’attesa; poi l’impazienza, e infine la solenne incazzatura.

Con uno sforzo immane riuscì a mettersi seduto sul letto e prese il telefono dal comodino nell’esatto momento in cui smise di squillare. Ancora imbambolato, cliccò sull’icona di uno dei contatti in rubrica.

“Pronto, dottor Ranieri? Senta, le volevo far sapere che non mi è possibile consegnare l’articolo per il 27.”

“Come sarebbe non ti è possibile? È successo qualcosa?”

“È successo che se avessi un contratto vero mi licenzierei. Pertanto la mia collaborazione in nero finisce qui. Ritengo che il vostro giornale non abbia dignità sufficiente nemmeno per incartarci le triglie.”

“Ma che, sei uscito pazzo?”

“Già, come Belluca.”

“Chi cazzo sarebbe ora questo Belluca?”

“Nessuno, dottor Ranieri. Buona serata e buone feste.”

“Buone feste un cazzo…!”

Jonas chiuse la comunicazione mentre Ranieri continuava a condire i suoi auguri con improperi di discutibile eleganza. Si sentì la testa più leggera, anche se continuava a essere un po’ debole, come se avesse vomitato un peso che aveva sullo stomaco e lo sforzo l’avesse lasciato traballante e senza energia. Ma prima di prepararsi qualcosa da mangiare andò ad accendere di nuovo il computer, fece una breve ricerca, poi riprese il telefono in mano.

“Silvia, sono io.”

“Come ti senti? Hai la febbre?”

“No, che febbre e febbre, ti ho detto che stavo bene. Senti, ho trovato un biglietto per domani, che dici, lo prenoto così ti raggiungo? Puoi venire a prendermi all’aeroporto?”

“Ma non devi finire quell’articolo?”

“No, sono libero, poi ti spiego.”

“Perfetto! Fammi sapere gli orari.”

“Ah però ti devo avvertire: se poi qualche parente razzista comincia a blaterare a tavola, io non rispondo più di me.”

“D’accordo.” sorrise Silvia.

Un racconto di:
Serena
Grazie di cuore di aver partecipato all'iniziativa.

Se vi è piaciuto il racconto di Serena, lasciate un commento così che possa saperlo. Detto questo vi aspettiamo la prossima settimana con il racconto che ha guadagnato il secondo posto della nostra classifica.

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