Abbiamo paragonato il percorso narrativo a un processo alchemico, dunque non potremo fare a meno di evidenziare, in esso, quattro elementi attraverso i quali dovrà passare la nostra opera in cerca della sua completezza. Cinque, per meglio dire, se consideriamo il misterioso e inafferrabile quinto elemento o Quintessenza.

In questo capitolo cercheremo di capire in che modo un testo possa comporsi (e scomporsi) in elementi paragonabili a quelli naturali, e lo faremo iniziando da quello ritenuto più concreto e materiale: la Terra, che poi, per estensione, indica uno stato solido in senso più ampio. Perché ho voluto fare questa precisazione? Perché se, immaginando gli elementi come Terra, Acqua, Aria, Fuoco ed Etere, potremmo vederli come realtà fra loro ben distinte e indipendenti; paragonarli invece agli stati di aggregazione della materia ci permette di vederli come momenti distinti di un’unica materia, un’unica sostanza, che può apparirci ora nel suo stato di Terra, ora nel suo stato di Acqua, ecc… e questo sempre in accordo con la tradizione alchemica, la quale non perde occasione per ricordarci che una soltanto sia la “materia” da trasformare all’interno del nostro personale alambicco, per quanto possa apparirci in tanti modi diversi ed essere chiamata con tanti nomi diversi.

Ai fini della nostra trattazione, cerchiamo quindi di capire cosa, in un testo narrativo, possa essere associato all’elemento Terra. Dal mio punto di vista, la Terra del nostro narrare sarà tutto ciò che contribuirà a conferire concretezza, solidità, materialità alla storia. La location, ad esempio. Perché è il luogo in cui dovremo permettere al lettore di “poggiare i piedi” e, affinché la magia possa avvenire, dovremo cercare di soffermarci il tanto che basti per “costruire” una Terra ed estenderla alla percezione di chi ci legge, permettergli di incamminarsi sui suoi sentieri. Terra, però, non è soltanto il luogo. Anche nelle descrizioni dei personaggi o degli oggetti dovremo trovare le nostre parole-Terra, aggettivi che siano in grado di plasmare poco a poco quelle figure nella mente del lettore come fa un vasaio con l’argilla. Siccome, idealmente, i cinque elementi dovrebbero coesistere in equilibrio, se in una storia mancasse l’elemento Terra potrebbe anche essere una storia bellissima ma le mancherebbe qualcosa di fondamentale, sfuggirebbe dalla mente o vi lascerebbe un’impronta evanescente, l’impressione di una vicenda indefinita nella quale non ci si possa immedesimare fino in fondo.

Ora, siccome il nostro obiettivo in questo percorso non è tanto quello di imparare a scrivere, bensì di creare alchimie narrative che si discostino in qualche modo dai “soliti”  e abusati canoni dello story-telling, affinché arrivino a trasmettere esperienze più autentiche e profonde nell’ottica di una metamorfosi – tanto di chi racconta quanto di chi diventi depositario del racconto stesso – diremo che per dare forma alla Terra del nostro racconto non basterà saper descrivere un luogo come si farebbe, ad esempio, in un testo didattico o un articolo di giornale. Non ci basterà dire di trovarci in un territorio montuoso e innevato, in una giornata tersa e soleggiata. Queste sono soltanto informazioni, di natura prettamente razionale, che come tali andranno a colpire unicamente la ragione del lettore. Non smuoveranno nulla dentro di lui, non “creeranno” nulla. Sull’altro piatto della bilancia va detto che lo scopo non sia nemmeno quello di caricare eccessivamente le descrizioni, moltiplicando aggettivi ed enumerando dettagli al solo scopo di farcirle e, magari, pensando dimostrare di essere dei bravi scrittori per il semplice fatto di conoscere molti sinonimi di una stessa parola. Non sarà così che creeremo la nostra Terra, al massimo appesantiremo il racconto e lo affosseremo in un eccesso di quell’elemento. Gli aggettivi e i dettagli possono essere anche pochi purché ben scelti, con una cura cioè che metta in luce l’amore e l’attenzione che si stia tributando all’atto del narrare.

mago alchimista su libro

Foto di SvetlanaKv da Pixabay

Soprattutto, teniamo presente che la vera magia del narrare, come già accennato, è la possibilità di giocare con le parole scombinando le carte in tavola, sorprendendo la mente con accostamenti inusuali, similitudini magari ardite purché visivamente eloquenti, rovesciando talvolta i più comuni meccanismi comunicativi. Perciò, se è bello e corretto scrivere che le montagne siano alte e innevate, sarà “magico” attribuir loro aggettivi che, nel comune uso della lingua, non siamo abituati ad associare a un paesaggio. Avremo quindi, magari, cime altere, alture orgogliose o audaci, crinali improvvisi o gioviali declivi. Ed ecco prendere forma, poco a poco, sotto i nostri occhi, minuti incantesimi della parola, di fronte ai quali la mente è costretta a creare commistioni e tessere legami tra mondi e dimensioni normalmente separati, estranei, incapaci di comunicare tra loro o erigere un mutuale arricchimento.

Ho presto l’esempio delle montagne perché si tratta di un’associazione facile, immediata, ma cerchiamo di astrarre il discorso e capire che la Terra, in un racconto, possa esserci in tutte le cose, persino quelle più apparentemente eteree, nel momento in cui ci impegniamo a dar loro spessore, percettibilità. Un cielo che venga descritto in modo tanto vivido da poter essere percorso dalla nostra mente, trovandovi un solido appoggio – come le ali degli uccelli sulle correnti ascensionali – sarà esso stesso Terra. Perché quel nostro cielo non sarà più soltanto uno sfondo piatto in secondo piano, come in una scenografia teatrale bidimensionale, bensì un luogo che possa essere esplorato, percepito, sentito sulla pelle.

Ancora una volta, non confondiamo l’intensità con la quantità: far vivere un cielo, renderlo tridimensionale, non significa dedicargli una pagina intera descrivendo persino gli atomi di cui sia composto. Uno dei più significativi esempi d’intensità “meteorologica” che mi vengano in mente in questo momento sono i versi di Carducci “la nebbia agli irti colli / piovigginando sale” (San Martino). Certo, qui si tratta di poesia e non di story-telling, ma i due linguaggi possono – anzi devono, talvolta – coincidere e coesistere, quando si voglia estrapolare intensità emotiva da uno scenario. Perché la poesia c’insegna a osservare in modo magico la realtà, a trovare profondità e spessore anche dove l’occhio della prosa veda solo superfici piane, ad attribuire forza di protagonismo a ciò che è inanimato, discreto o insignificante.

In quei versi di Carducci, se ben ci si fa caso, la vera magia è racchiusa in un’unica parola, il verbo al gerundio piovigginando. Poiché se la nebbia che sale ai colli è descrizione, prosa, normalità, il suo piovigginare – pur essendo per certi versi ovvio, lapalissiano – messo in rilievo in quel punto della poesia diventa esperienza sensoriale della nebbia, ne delinea il senso di umida e quasi odorosa densità, la intride di freddezza autunnale. Come vedete, un’unica parola. Ecco la Terra di quei versi, pur essendo, di fatto e per assurdo, versi di cielo.

Tuttavia, ancora una volta non vorrei che il discorso venisse recepito in modo troppo schematico e misurato: non imbrigliate il vostro racconto nello “sforzo” mentale di domandarvi: “Ho inserito abbastanza parole che facciano percepire la Terra?”, “Ne ho inserite troppe?”, “Saranno abbastanza intense?”. Se dovete calcolarla, delinearla con righello e goniometro, probabilmente quella magia vi sta sfuggendo di mano, si sta trasformando in un progetto tutto razionale a scapito della spontaneità, a scapito del cuore. Non esiste la giusta misura, la misura è data dalla vostra intima percezione della forza dello scritto. Se pensate – anzi, se sentite – che un particolare dettaglio meriti sovrabbondanza (di aggettivi, di similitudini…) non lasciate che la preoccupazione di eccedere si trasformi in una gabbia creativa che v’imprigioni in stilemi main-stream, approvati, condivisi, consigliati. Se un’alchimia deve compiersi tra voi e l’ispirazione che in voi cerca di fluire, datele il suolo in cui mettere radici, in cui germogliare ed espandersi. Penserete in seguito, semmai, alla potatura del superfluo, e sempre in base a una percezione profonda, non ai dettami di una moda o di una scuola di pensiero.

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