Il docu-film Missing: il caso Lucie Blackman, disponibile dal 26 luglio, è la più recente produzione true crime targata Netflix.
Il regista Hyōe Yamamoto segue la formula ormai consolidata della piattaforma (vedi “il caso del Cecil Hotel”), quella di raccontare le vicende attraverso coloro che le hanno vissute, i detective che hanno svolto le indagini, i parenti delle vittime, i testimoni.
Oltre a ciò, questo documentario ci porta a scoprire un aspetto inedito del Giappone, un underground oscuro del Paese che ancora oggi è considerato tra i più sicuri al mondo.
Missing: il caso Lucie Blackman – Trama
Il 2 luglio del 2000, Louise Phillips riceve una strana chiamata che la informa che la sua amica Lucie Blackman è stata coinvolta in una non meglio specificata “setta” e che non la rivedrà più.
Scatta l’allarme ma la polizia stenta a dare da subito il giusto peso alla situazione.
La Blackman è un ex assistente di volo inglese di 21 anni con un permesso turistico di tre mesi col quale lavorare in Giappone è illegale.
La ragazza però è intenzionata a restare e trova lavoro come hostess nel club Casablanca a Roppongi, un quartiere di Tokyo.
Pochi giorni dopo la scomparsa, suo padre Tim vola in Giappone per tenere una conferenza stampa per sollecitare le indagini.
Vengono affissi e distribuiti circa 30.000 volantini e offerta una ricompensa di 100.000 yen a chi fornisse informazioni utili al ritrovamento di Lucie.
Come risultato della pubblicità che circonda il caso, tre donne si fanno avanti per descrivere il risveglio dolorante e privo di ricordi nell’appartamento di un ricco uomo d’affari, Joji Obara che si scoprirà essere non solo l’assassino di Lucie ma un predatore sessuale seriale con all’attivo, più di cento stupri e l’omicidio colposo di un’altra ragazza: Carlita Ridgway.
Recensione
Missing: il caso di Lucie Blackman è un documentario inquietante sotto molto aspetti: il primo è che sfata il mito che il Giappone sia un posto sicuro.
Di certo lo è rispetto ad altre realtà, ma nulla è sicuro. Non si è mai al sicuro dal lato oscuro delle persone che ci circondano ed anche da quelle che crediamo di conoscere.
Impulsi perversi e denaro sono un mix letale in qualsiasi posto al mondo.
Lavorare come “hostess” nei club del sol levante è uguale a lavorare nei locali per adulti di Amsterdam, prima o poi uscirai col cliente gentile che paga bene.
E fin qui è ok finché tutto va liscio. Quando non accade, la polizia faticherà a investire energie e tempo se di mezzo c’è una sex worker (pregiudizio che l’America anni ’90 conosce bene).
Le ragazze che hanno provato a denunciare il ricco uomo d’affari che drogava, stuprava e, come si scoprirà in seguito, filmava gli abusi, non furono ascoltate fino a quando il tenace Tim Blackman, padre di Lucie, non coinvolse addirittura il Primo Ministro inglese Blair in visita in Giappone.
Questa storia risulta inquietante perché se non fosse stato per l’attenzione mediatica che Tim riuscì a catalizzare sul caso, Obara avrebbe continuato a drogare e violentare giovani ragazze tra le quali, ogni tanto, ci scappava la morte per overdose come nel caso di Carlita e Lucie.
Conclusione
Il film documentario è di ottima qualità e la narrazione è scorrevole.
Peccato che oltre a guardare il film ho cercato altre notizie in rete ed ecco un ulteriore pugno nello stomaco e non da parte di uno psicopatico, ma da un padre che accetta dai soci del ricco assassino di sua figlia una somma corrispondente a circa 442.000 sterline.
La notizia è riportata da più fonti, ma credo l’Indipendent basti e sia attendibile.
Pare che in Giappone sia usanza comune che i crimini vengano espiati, oltre che con la detenzione anche con somme di denaro versate in modo spontaneo alle vittime o alle loro famiglie.
L’ex moglie di Tim e madre di Lucie definì quel denaro “insanguinato” nonostante il marito dichiarò l’intenzione di utilizzarlo per “assicurare il futuro a lungo termine del “Lucie Blackman Trust “, una sorta di associazione che lavorerebbe per aiutare i giovani a essere più consapevoli della loro sicurezza, in particolare quando sono all’estero.
Non so perché ma, a mio modesto parere, l’elemento denaro rende queste faccende ancora più tristi e squallide.
Comunque sia, già da questo ed altri documentari true crime si può trarre un insegnamento che pare scontato ma non lo è mai abbastanza: accettate pure “caramelle” da chi si conosce da poco ma fatelo in contesti sicuri e cercate di tenere cari riflessi e lucidità mentale.
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