Il Giffoni Film Festival è stato per noi l’occasione per poter visionare in anteprima la pellicola Come le tartarughe di Monica Dugo di cui abbiamo parlato in un precedente articolo.
La pellicola è, come abbiamo già detto, oltremodo originale e affronta una molteplicità di temi, ma lo fa in una maniera delicata lasciando sempre lo spazio alla possibilità di sorridere. Il film ci ha colpito così tanto che non abbiamo potuto fare a meno di chiedere a Monica di poterle porre qualche domanda e lei ha gentilmente accolto il nostro invito e di questo le siamo immensamente grati.
Innanzitutto, benvenuta sul nostro modesto spazio. Ti ringraziamo di essere qui. Hai raccontato che l’idea del film nasce da un’immagine, quella di un armadio vuoto. È un armadio reale quello di cui parli?
Purtroppo sì. Ho trovato, nella mia vita, un armadio svuotato. Quell’immagine, quello spazio vuoto, sono rimasti nella mia mente per lungo tempo. L’idea per il film è partita da lì.
Quando il marito l’abbandona, Lisa vede cadere l’intero mondo intorno a sé. Si può dire che come se tutto quello che ha costruito fosse un castello di sabbia e un’onda più forte delle altre sia arrivata a spazzarlo via?
Lisa ha ignorato fino a quel momento i segnali che potevano far prevedere l’insofferenza del marito. Non ha visto, o non ha voluto vedere, ma quando succede, è davvero una cosa inaspettata, e il suo castello forse era veramente fatto solo di sabbia.
Sempre all’inizio del film c’è un momento all’inizio del film, di cui io e la mia collega Luana abbiamo discusso. Sveva si rivolge alla madre e le chiede “Hai fatto i ricci?” e Lisa nel dialogo con sé stessa afferma che invece li ha sempre avuti i ricci. C’è forse una quel momento una sorta di consapevolezza di essere, come dire, invisibile?
Volevo seminare effettivamente questo fatto, l’invisibilità per la sua famiglia, nel bene e nel male, tanto vale nascondersi del tutto.
Ci sono due momenti speculari che riguardano Lisa e Sveva. La prima quando Lisa dice che non le sono mai piaciuti i gamberetti e la seconda quando Sveva si rivolge al quadro con la stessa frase. Correggimi se sbaglio, ma c’è una certa affermazione del sé in entrambi questi momenti. È come dire, “ma perché mi sono sempre costretta a mangiarli?”
Sia Lisa che Sveva compiono un primo passo nel loro percorso, una piccola ribellione. Lisa non mangia i gamberetti, Sveva copre quell’immagine che la ha sempre disturbata.
Come le tartarughe è un film che parla molto del femminile a mio avviso. Alla fine queste donne si rivelano molto forti, ma sono anche donne del quotidiano. E la loro forza è anche nelle loro fragilità. È un aspetto che non viene raccontato spesso, non trovi?
Volevo raccontare di una donna che non è una super donna. Anzi il contrario. Ma volevo dimostrare che le donne fragili, all’apparenza deboli, hanno una loro forza che viene fuori nei momenti più impensati, anche coi comportamenti più bizzarri.
Tra l’altro ho notato che molte delle persone che hanno lavorato al film sono donne. Intendo anche all’interno del cast tecnico. È un caso?
Ho cercato di coinvolgere nel cast tecnico quanti più amici possibili. Amici professionisti eccellenti intendo. Non ho davvero cercato di avere più donne intorno, quello è stato un caso.
L’armadio del film è pieno di fotografie e di conseguenza di ricordi. Ma dell’esperienza sul set c’è qualche ricordo che porterai sempre con te?
Io ho due figli, e quando sono venuti sul set, ho avuto un brivido di quanto, senza averli mai conosciuti prima, gli attori che nel film interpretavano i miei figli, avessero delle cose in comune con i miei figli veri. E vederli chiacchierare tutti e quattro , mischiando realtà e finzione, è stato molto emozionante.
Hai detto di aver immaginato la scena del chiudersi dentro un armadio. Al di là del set, hai voluti tentare di replicare l’esperienza?
Devo ammettere che durante un periodo molto difficile della mia vita, mi sono chiusa in me stessa, in casa, a parenti e amici, e ho avuto voglia di stare solo con i miei figli. Il mio armadio sono stati loro, e anche la mia cura.
Si tende spesso a demonizzare il dolore. Ma io credo che uno degli insegnamenti di questo film sia quello di imparare ad accettarlo.
Si tende a vergognarsi del dolore, a volerlo nascondere, o a parlarne troppo con chiunque. La strada che faccio scegliere a Lisa, è accettarlo, conviverci, e seguire il proprio istinto per superarlo.
L’intero percorso della storia potrebbe assimilarsi a un processo catartico, che porta Lisa a ricostruire sé stessa, dopo il crollo delle illusioni. Ti accennavo in sede di Giffoni al processo del kintsugi che ho riconosciuto in una scena all’interno del film. Delle numerose metafore a cui ho già accennato nella recensione vorrei soffermarmi con te su una in particolare. E cioè quella per cui a volte è necessario che alcune cose si rompano per poter andare avanti.
Ed è importante non volerle ricostruire uguali a prima, ma accettarne la differenza. Le cose “storte”, non per forza sono più brutte, il vaso incollato male nell’ultima scena, può comunque contenere dei bei fiori.
Siamo giunti alla fine di questa intervista. Mi auguro che tu abbia avuto piacere nel rispondere a queste domande e che le abbia trovate interessanti. Nel ringraziarti del tempo che ci hai dedicato ti lascio un’ultima domanda. C’è qualcosa che vorresti dire a chi andrà a vedere questo film?
Mi piacerebbe che ognuno ne esca con un sorriso e un moto d’affetto verso i protagonisti della storia. Che trovi un punto di contatto personale, e ricordi che da qualsiasi “chiusura”, c’è una via d’uscita. Ma bisogna sforzarsi. Bisogna amare e amarsi, essere sinceri con gli altri e con se stessi. E andare al cinema lasciandosi sorprendere, facendo propria la storia.
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