Il racconto vincitore dell’edizione di Gennaio de Sull’Orlo del Foglio è Quando Finirà inviato da Serena Parisi. Un racconto che abbiamo trovato molto bello e che forse capita al momento giusto a volerci ricordare quelli che sono gli orrori della guerra.

 Vi ricordiamo che siete ancora in tempo per prendere parte all’edizione di Febbraio quindi non mancate di inviare i vostri racconti.

Quando finirà

L’aria era gelida e tirava un venticello che tagliava la faccia. Per strada non passava un’anima. Dietro lo strato di piombo delle nuvole il sole doveva essere vicino al tramonto, e le ombre già s’incupivano. Josephine tastò il fazzoletto col pane bianco che aveva nascosto sotto la camicia e accelerò il passo. La signora quel giorno le aveva regalato anche la cioccolata, il padre sarebbe stato contento. Quando camminando si accostava ai rari gruppi di case, l’odore del fumo dai camini era frammisto a volte a quello del pane, a volte addirittura a quello di frittura, forse di dolciumi. A guardare le colline, già sonnecchianti nella loro calma di sempre, sarebbe riuscito difficile indovinare quel disastro. Josephine pensò che anche quel giorno di sei mesi addietro tutto era come ora, calmo e inconsapevole. Poi quella cosa che sembrava non dovesse essere affar loro, lontana, quasi inesistente, piombò loro addosso, inevitabile come un castigo di Dio. Ma sì, per loro finora poco e niente era cambiato, la guerra si faceva da un’altra parte, qui semmai solo la miseria era rimasta, anzi, era peggiorata – sebbene di quei tempi fosse più difficile morire di fame in campagna che in città. Ogni tanto arrivava una lettera a segnalare che il figlio o il marito di qualcuno era caduto o veniva dato per disperso. La guerra sembrava una questione privata, che riguardava solo altri posti, altre persone. Il 21 giugno del ’43, invece, arrivò anche là.

Quel giorno segnò una cesura nella vita di Josephine, per cui cominciò inavvertitamente a dividere quello che le capitava in un ‘prima’ e un ‘dopo’. Di allarmi aerei ce n’erano già stati, e parecchi, ma poche erano le persone che correvano a cercare rifugio nei ricoveri più o meno improvvisati. I più restavano dov’erano, o addirittura si affacciavano per le strade o ai balconi a guardare quegli strani apparecchi – chi segnandosi velocemente, chi mormorando brevi preghiere, più curiosi che spaventati, sicuri che il carico degli aerei non fosse destinato a una città piccola, forse poco strategica, come la loro. Anche quando il ricognitore che da giorni sorvolava la ferrovia – che osservavano con bonaria indifferenza, tanto che alcuni avevano preso ad affibbiargli nomignoli scherzosi – a un tratto si mise a fare fuoco, fu un fatto che riguardò solo i poveri disgraziati che si ritrovarono sotto tiro. Perciò il primo giorno d’estate di quell’anno, al risuonare dei soliti, inutili allarmi, molti se ne restarono in spiaggia, altri non ritennero necessario interrompere il pranzo e alzarsi da tavola, altri ancora andarono ad appennicarsi sui loro letti senza darsi tanto pensiero, come fece il padre di Josephine. E dal suo letto, quando la figlia corse ad avvertirlo che stavolta le bombe stavano cadendo sul serio, non ci fu verso di smuoverlo.

“Nossignore! Io non mi alzo!”

“Ma papà, almeno andiamo a ripararci giù in cantina! Qua crolla tutto!”

“Macché! Vacci tu, figlia mia, vai, riparati tu che sei giovane! A me non importa niente, sono vecchio! Voglio morire nel mio letto!”

“Ma papà…!”

“Non ne voglio sapere niente! Bombe, ricoveri… me ne fotto della guerra! Se la piange chi l’ha voluta! Lasciami morire in pace.” E si rinserrò sotto le lenzuola stringendo i pugni come un bambino che fa i capricci. Josephine non seppe che fare. La casa continuava a essere scossa dai boati, non si capiva a che distanza cadessero le bombe, ogni volta credevano fosse proprio su di loro e poi si meravigliavano di trovarsi ancora vivi, la casa miracolosamente ancora in piedi, fra la polvere dei calcinacci caduti nella stanza. Portare il padre a cavalcioni fuori di lì era impossibile, avrebbe dovuto trascinarselo appresso con tutto il letto. Quell’inferno ancora non si era placato, ma da quanto durava? Per lo meno cinquanta, cento bombe dovevano aver lanciato. Chi le aveva lanciate poi? Gli americani, gli inglesi? E comunque il padre non aveva mica torto, perché non se la piangevano fra di loro, quelli che l’avevano voluta, questa guerra? Buttatele in testa a Mussolini e a quei fessi che gli vanno appresso, le bombe! A proposito di fascisti e di fessi… il pensiero di Josephine andò a Luca, così lontano che era come fosse morto; come si chiamava quel posto? Bengasi, le pareva, dove gli inglesi l’avevano fatto prigioniero da dieci mesi ormai. Era partito volontario, Luca era un fanatico di Mussolini, un fanatico fesso, diceva fosse compito suo civilizzare l’Africa, quando a guardare bene, mormorava spesso fra sé Josephine, se c’era qualcuno che doveva essere civilizzato, quelli erano loro stessi… Intanto, chi gliel’avrebbe fatto sapere, se lei fosse morta in quel momento sotto le bombe? Non si erano nemmeno sposati ancora, il padre di lui si era messo di traverso, in modo tale che se il figlio fosse morto in guerra, quel poco di pensione che gli spettava non gli venisse usurpato dalla vedova – in fondo l’aveva cresciuto lui quel figlio, e la sua cocciutaggine non solo era costata lacrime amare alla madre, ma, soprattutto, veniva a significare un paio di braccia robuste in meno nel lavoro dei campi per lui.

Mentre finalmente si spegneva l’ultimo rimbombo delle esplosioni, erano rimasti tutti e due immobili, Josephine sotto la trave della porta e il padre coperto dal lenzuolo fino agli occhi, aspettando di morire da un momento all’altro. Nemmeno quando tutto si fu calmato si smosse o si scoprì; Josephine si spaventò e corse a togliergli il lenzuolo dalla faccia per vedere se era vivo o morto.

“Sono ancora vivo, sono ancora vivo, per mia disgrazia.”

E da quel giorno non volle più alzarsi dal letto. I bombardamenti aerei continuarono, poi ci fu lo sbarco degli alleati, e le colline sonnacchiose che ora Josephine stava attraversando videro per settimane la carneficina fra americani e inglesi che avanzavano faticosamente da un lato, e tedeschi costretti piano piano a indietreggiare dall’altro.

Fu qualche settimana dopo l’occupazione degli alleati che Josephine cominciò a lavorare a mezzo servizio dalla moglie di un capitano inglese. Più che lavoro, per lei rappresentava l’unico momento in cui poteva sfuggire alle preoccupazioni per il padre, per Luca, alle angosce piccole e grandi della sua vita quotidiana. Perfino la guerra assumeva tutt’altre sembianze quando si trovava in compagnia della signora Forester e, sebbene di rado, del marito. I due sposi stranieri, con la loro aria elegante, compassata, sembrava vivessero in una bolla avulsa dalla realtà, dove non solo la guerra non era il mestiere del giovane capitano, ma non era ne era neppure concepita l’esistenza. A Josephine il loro atteggiamento sempre composto ed equilibrato fece dapprincipio un effetto straniante. Un giorno la signora la prese in disparte, inaspettatamente, mentre Josephine le stava portando la sporta su per le scale.

“Ma quando finirà, Josephine, tu me lo sai dire? Quando finirà questa guerra maledetta?” le chiese, con un tono che Josephine non le aveva mai sentito prima. La ragazza restò di pietra, non seppe cosa né se dovesse rispondere.

“Tutti s’illudevano che sarebbe finita in poco tempo, che poi l’avremmo vista soltanto al cinema. E invece… quest’incubo non finisce mai…” continuò, alzando lo sguardo su di lei, forse aspettava davvero una risposta. Josephine riuscì solo a vedere i suoi occhi sconvolti e ne fu completamente disorientata, in quel momento non avrebbe saputo rispondere nemmeno a chi le avesse chiesto il suo nome. La signora Forester si accorse che la scorta doveva pesarle e gliela tolse dalle mani. Senza dire altro, assunse l’atteggiamento composto di sempre e riprese a salire le scale.

“Quando finirà?” echeggiava la voce della signora Forester nella testa di Josephine mentre tornava a casa quella sera. Appena il padre vide il pane e la cioccolata che gli aveva portato, sorrise e stese la mano, contento come un bambino. La figlia sorrise a sua volta – a vederlo così, mentre piluccava la mollica con gusto, con la coppola adagiata sui pochi capelli bianchi arruffati e lo scialle nero sulle spalle, sembrava uno di quegli uccelletti sparuti che cadono dai nidi. A un tratto, sentirono un botto tremendo che fece tremare muri, vetri e mobili.

“Uh madonna santa! Daccapo con le bombe americane!” Il padre, proprio come un uccelletto spaventato, nascose la testa sotto le coperte, tutto tremolante. Era stata davvero una bomba, ancora? Josephine, di contro alla prudenza che le era solita, volle affacciarsi al balcone, quasi come fosse una sfida. Dal buio emersero dei luccichii. Non erano bombe. Qualcuno si stava divertendo a lanciare castagnole nello spiazzo fra le case.

“Ohé, Josephine, buon anno! Volete unirvi a noi? Senza complimenti!” gridarono dal balcone di fronte. Si era completamente dimenticata che quella sera era la vigilia di capodanno, aveva perso il conto dei giorni, e parlare di festività non le sembrava avesse molto senso.

“E che cosa avete da festeggiare?” rimbeccò Josephine in un tono di voce che sorprese lei stessa.

“Come, che abbiamo da festeggiare? L’anno nuovo, no?” risero dal balcone. Era la famiglia Taddei, al completo. Il vecchio, ex spia dei fascisti, era uno dei tanti che ora facevano soldi con la borsa nera. Da quando aveva saputo che Josephine lavorava dagli inglesi aveva spesso cercato di farle dei regali – farina, uova, perfino caffè e cacao. Sperava così che la ragazza intercedesse presso gli inglesi perché chiudessero un occhio sui suoi affari. Prontamente, Josephine gli faceva ritrovare tutto il ben di Dio che le veniva recapitato sui gradini del suo portone, intatto.

“Magari questo è l’anno buono!” distinse la voce del vecchio Taddei, mezzo ubriaco.

“Per le carogne come voi è sempre l’anno buono!” ribatté Josephine, chiudendosi la finestra alle spalle. La testa scapigliata del padre riemerse dalle coperte.

“Ma che è stato? Le bombe americane un’altra volta?”

“No, papà. È capodanno, fanno scoppiare le castagnole.”

“Ma è finita la guerra?”

“No.”

“E allora prega, figlia mia, prega. Capace che questo è l’anno buono!”

E pure quando la guerra sarebbe finita, sarebbe tornato tutto come prima? Josephine si era convinta di poter indicare con precisione il momento in cui la sua vita era cambiata. Lo aveva identificato con il 21 giugno di quell’anno, il giorno in cui erano cadute le prime bombe, e guerra e morte erano diventate cose concrete, ineludibili. Questo perché, come chiunque, anche lei credeva istintivamente che ogni cambiamento fosse dovuto a determinate azioni o eventi. Invece i cambiamenti veri, i più terribili e radicali, succedono in silenzio, coperti dal manto immobile della quotidianità. Come una pioggia sottile, che col tempo logora il terreno, e quando questo cede tutt’a un tratto si grida “Che disgrazia! Ma com’è stato possibile?”, e non ci si era accorti che invece il terreno crollava un po’ ogni giorno, sotto gli occhi di tutti. Così, tutte le piccole sfumature che impercettibilmente e ineluttabilmente si erano alterate fino a quel momento sotto i suoi occhi, Josephine se le era sentite cascare in testa tutte insieme, all’improvviso, e più che una frana erano diventate una valanga, che la travolse, la inghiottì.

Quando la guerra sarebbe finita, perché doveva pur finire un giorno, forse alcune cose sarebbero tornate come prima, magari anche alcune persone. Ma questo non avrebbe avuto importanza per Josephine. Per cento, mille inafferrabili ragioni, lei non sarebbe stata la stessa. E di fronte a questo pensiero si sorprese a non provare nessun timore.

 
Un racconto di:
Serena Parisi
Grazie di cuore per aver partecipato all'iniziativa.

Se vi è piaciuto il racconto di Serena, lasciate un commento così che possa saperlo. Detto questo vi aspettiamo la prossima settimana con il nuovo numero della rivista.

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