Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio è l’ultimo prodotto televisivo in ordine di tempo di genere true crime realizzato per piattaforma streaming Netflix e rilasciato il 16 luglio scorso.
Il documentario diretto da Gianluca Neri, è composto da cinque episodi di circa un’ora ciascuno e a pochi giorni dal suo rilascio conta già visualizzazioni (e polemiche) da record.
Il Caso Yara – Trama
“Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio” ripercorre i fatti accaduti il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra, un piccolo centro in provincia di Bergamo. Alle 17,30, Yara Gambirasio è nel palazzetto dello sport di Brembate, non è giorno di allenamento, ci va per consegnare una radio. Da quella sera, la ragazzina di appena tredici anni, campionessa regionale di ginnastica ritmica, non tornerà più a casa, il suo corpo verrà ritrovato il 26 febbraio in un campo aperto a Chignolo d’Isola, a circa dieci chilometri dal luogo della scomparsa.
Il documentario racconta le imponenti indagini a tappeto che ne seguirono, le piste che si rivelarono nulle fino all’isolamento del DNA di “ignoto1”, l’arresto e la condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti passando attraverso i ricordi ed i pareri delle persone che quel tragico evento l’hanno vissuto.
La mini serie dà voce a Bossetti, a sua moglie, al comandante dei carabinieri che seguì le indagini e ai signori Gambirasio attraverso filmati di repertorio.
Recensione
“Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio”, nei primi due episodi ricostruisce la vicenda che coinvolse la piccola Yara, avvalendosi di testimonianze importanti, filmati d’archivio e ricostruzioni dei fatti. Regia, fotografia e sceneggiatura che si evolve su due linee temporali diverse, coinvolgono lo spettatore come nessun altro format true crime dai tempi di “Mostro – la storia di Jeffrey Dahmer”.
La docu serie, infatti, risulta scorrevole e molto avvincente.
Peccato che dal terzo episodio in poi, venga dato molto, troppo, spazio alla vicenda dal punto di vista di Bossetti e famiglia. Vengono rispolverati vecchi dubbi e polemiche sulle metodologie d’indagine, sullo svolgimento del processo, sul lavoro dei carabinieri, del Pubblico Ministero e sulla colpevolezza di Bossetti che, è bene ricordare, è stato condannato all’ergastolo attraverso tre gradi di giudizio.
Non che non sia giusto esaminare i fatti da ogni prospettiva, ma dal terzo episodio in poi la serie dovrebbe chiamarsi “Il caso Bossetti” perché è lui, le “sue ragioni” e la sua capacità manipolativa che prendono sempre più spazio instillando nello spettatore medio tanti punti di domanda. A dispetto del titolo, questo documentario non porta affatto “oltre ogni ragionevole dubbio”, al contrario sembra volerne crearne.
Col senno di poi, la locandina delle serie con la sagoma di Bossetti dietro le sbarre lasciava già presagire una deriva non proprio lineare.
Conclusioni
Un colosso come Netflix che tratta un caso come quello di Yara, puntando sul sensazionalismo, sull’ipotesi di scarsa professionalità a svolgere le indagini, sul dubbio che qualcosa non sia stato valutato, che ridà voce alle illazioni di una certa stampa, è deludente. Le intenzioni di questo prodotto appaiono chiare dalla locandina, ma soprattutto dal trailer, montato ad arte per gli amanti delle “teorie del complotto” più che per i seguaci del true crime.
Nonostante ciò, resta un prodotto altamente consigliato a patto che, terminati i cinque episodi, si guardi, per completezza di causa, il contributo registrato della criminologa Roberta Bruzzone che aiuta a capire “oltre ogni ragionevole dubbio”, il profilo narcisista di Bossetti, le prove schiaccianti a suo carico e l’imponente macchina investigativa che fu messa in campo per assicurare alla giustizia l’assassino di Yara.
Prima di Yara, Sarbit Kaur, una vittima di serie B?
Sarbit Kaur è una ragazza di ventuno anni di origine indiana, scompare dalla sua abitazione a Martinengo il 24 dicembre 2010, un mese dopo la scomparsa di Yara. Il suo corpo viene ritrovato sei giorni dopo ad una quindicina di chilometri di distanza, a Cologno, sul greto del Serio.
I punti in comune con la morte di Yara sono decisamente inquietanti: Martinengo e Brembate di Sopra distano meno di trenta chilometri, due scomparse due cadaveri in una zona circoscritta, il corpo di Sarbit Kaur presentava ferite sui polsi, sul petto e sulla schiena molto simili, se non uguali, a quelle riscontrate sul corpo di Yara.
Il caso della ragazza indiana fu archiviato come suicidio anche se le ferite ai polsi erano superficiali, inflitte per far soffrire e non profonde da portare alla morte. Ad entrambe, inoltre, toccò una morte lenta, Yara morì di ipotermia e Sarbit per annegamento. Se qualche falla c’è stata da parte di chi era preposto ad indagare, è aver chiuso troppo presto le indagini sulla morte di Sarbit… chissà, forse oggi non useremmo la parola “assassino” ma “serial killer”.
Le indagini massive sul caso Gambirasio
La mole investigativa messa in campo sul caso Yara non era mai stata attuata prima e nemmeno lo è stata dopo, almeno non così imponente, massiva e pervasiva. Furono raccolti, analizzati e incrociati circa quindicimila DNA allargando il campo d’indagine ai paesi limitrofi. Vennero coinvolti i più quotati genetisti, medici legali, tecnici informatici, furono messe sotto controllo per mesi le linee telefoniche di un’area vastissima, la polizia svizzera inviò i suoi migliori cani molecolari, nessuna pista, davvero nessuna, fu lasciata intentata.
Non serve essere un medico per capire che il DNA è una prova certa e quello di “ignoto1” identificato poi in Massimo Bossetti, fu trovato sugli slip di Yara. Sugli slip. La miniserie “ Il caso Yara” è da seguire assolutamente, ma è fortemente consigliato anche visionare il parere della dott.ssa Bruzzone, per proiettarsi davvero “oltre ogni ragionevole dubbio!”
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